di Biagio Tinghino*
La tv e i social ci hanno abituato ai dibattiti. Anzi, gli ascolti salgono se ci sono polemiche e persone che litigano. È per questo che chi fa televisione cerca sempre di invitare un “bastian contrario”, un urlatore professionista o un dissidente. Dirà cose sbagliate, ma gli spettatori resteranno incollati allo schermo. Questa strategia è stata usata per le tribune politiche, e va bene, poi per le trasmissioni sulle partite di calcio. Infine, si è scoperto che conveniva farlo anche sui temi scientifici, e questo è un errore, perché nella scienza le opinioni valgono zero, gli scienziati vogliono i dati, le evidenze scientifiche, non le opinioni. Ma chi è in grado, tra la gente comune, di controllare i dati?
Quasi nessuno. E allora si va avanti col sistema delle tribune politiche: tu hai detto una cosa, ma un altro medico ha detto la cosa contraria. Tutti sullo stesso piano. Bugie e verità, al 50%, in nome della libertà d’opinione. Ovviamente, tutto questo è sbagliato e crea danni.
La forza delle evidenze scientifiche
Alla luce degli errori commessi dalla medicina nei secoli scorsi, dagli inizi degli anni ‘70, la comunità internazionale si è data invece un metodo per stabilire quanto una scoperta sia o meno attendibile, quale importanza gli si possa attribuire. Insomma, un sistema per “pesare” le evidenze scientifiche. Oggi il metodo è accettato universalmente e tende a valutare i fatti e non le opinioni.
Si tratta della Evidence Based Medicine (medicina basata sulle evidenze scientifiche), che assegna un livello di attendibilità (o, in senso inverso, una probabilità di errore) ai dati raccolti da medici e ricercatori. Il sistema classifica la probabilità di errore e ci indirizza sul metodo migliore per prendere decisioni terapeutiche. Per avere dati attendibili dobbiamo basarci su ricerche condotte su migliaia di pazienti. Dobbiamo distinguere le guarigioni spontanee da quelle causate dal farmaco in sperimentazione. Ed eliminare altre fonti di errore, come l’autosuggestione del paziente e l’influenza che il ricercatore può esercitare.
Se è possibile che un ricercatore scopra qualcosa di veramente interessante, altri, usando gli stessi metodi, giungeranno a risultati identici. Quest’ultimo livello di verifica, finora, è il più efficiente che conosciamo, perché non dipende da una persona o da un’istituzione, ma è il contributo di tutta la comunità scientifica.
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Le regole per difendersi dalle fake news
Noi stessi dovremmo iniziare a valutare l’attendibilità delle notizie che condividiamo con i nostri conoscenti. È importante verificare, per esempio, che un’informazione riporti il nome e il cognome dell’autore, e constatare la validità delle sue competenze professionali. Ma non basta.
A quel punto, bisogna cercare di capire se i loro dati siano stati verificati da altri colleghi; se siano stati riprodotti da altri ricercatori e scoprire l’opinione del resto della comunità scientifica. Infine ci sono dei “divulgatori” che, per attirare l’attenzione (e aumentare le visite al loro sito), prendono un articolo scientifico, ne ingigantiscono i risultati e lanciano titoli sensazionali. Un classico è la “scoperta della vera causa dei tumori”, o di un “rimedio efficace tenuto nascosto da un complotto internazionale”.
Nel dubbio, o in assenza di valide competenze, è molto meglio non condividere informazioni di cui non siamo sicuri. Le informazioni sbagliate danneggiano la salute!
Il mondo della ricerca è indipendente?
I contrasti di opinione che vengono diffusi dai media tendono a creare diffidenza. È diffusa l’idea che i ricercatori siano comunemente condizionati da interessi commerciali. Naturalmente può succedere, ed è successo. Le riviste scientifiche, per esempio, sono naturalmente più propense a pubblicare risultati positivi, scoperte innovative, piuttosto che studi dagli esiti negativi. In altre situazioni i ricercatori possono tacere sui loro conflitti di interesse, anche se quando vengono scoperti i loro articoli vengono ritirati e il loro prestigio internazionale crolla.
Ma è ingenuo pensareche non ci sia qualcuno mosso da un “interesse”. Dipende dal tipo di interesse: se legittimo o scorretto. Facciamo degli esempi.
Come orientarsi tra venditori, “esperti indipendenti” e fanatici
Chi vende o produce rimedi naturali lo fa per guadagno, ovviamente. La stessa cosa fanno le aziende farmaceutiche e i farmacisti. Chi sta leggendo questo libro presumo non lavori gratis. Anche i professionisti dell’informazione sono mossi dall’interesse di avere più lettori o più ascoltatori (quindi più soldi). Altri tipi di obiettivi sono apparentemente meno “materiali”: es., ottenere visibilità, conquistare follower, destabilizzare un governo od orientare i cittadini “arrabbiati” verso il proprio partito.
Poi esistono gli “esperti indipendenti”, che usano la popolarità conquistata sui social per avere donazioni, guadagnare facendo visite private, eseguire test diagnostici a pagamento, vendere direttamente prodotti terapeutici o integratori, organizzare corsi a pagamento.
L’ultima categoria, forse la più pericolosa perché inconsapevole, è quella dei fanatici, disposti anche a falsificare i dati per far prevalere la propria opinione. La soluzione? Il meglio che si può fare è chiedere ai ricercatori di rispettare le regole, non di scavalcarle, ma di gestire in trasparenza i conflitti di interesse e far sì che aumentino i fondi pubblici per la ricerca.
Finora, e nella gran parte dei casi, il sistema ha funzionato. La prova? Le aziende produttrici di tabacco non sono riuscite a bloccare gli studi sulla dannosità del fumo. Le aziende farmaceutiche non possono impedire le pubblicazioni sugli effetti collaterali dei farmaci, né le industrie inquinanti possono bloccare le pubblicazioni sull’inquinamento ambientale.
Non esistono ostacoli alla pubblicazione cospicua di ricerche scientifiche su temi di prevenzione e apparentemente “alternativi”: come le piante medicinali, un sano stile di vita, una buona alimentazione, i danni da alcol, i benefici dell’attività fisica, ecc. Non viene neanche ostacolata la produzione di piccoli report – se interessanti – su singoli o pochi casi clinici (case reports).
Esistono alternative a questo metodo di procedere? Non lo sappiamo, ma sicuramente prima di essere adottate devono dimostrare di saper fare meglio.
Per questo un mio amico epidemiologo diceva: “La mia fede è in Dio, da tutti gli altri voglio i dati”.
*Medico, specialista in malattie infettive e gastroenterologia, esperto di Promozione della salute;
collabora con il mensile Vita&Salute e la Fondazione Vita e Salute