Orientarsi. Da cosa dipende?

da | 7 Feb, 2022 | Salute

di Paola Emilia Cicerone

Orientarsi nello spazio da soli è un’esperienza rara. Ci affidiamo infatti quasi sempre ai navigatori satellitari. Un fenomeno che non aiuta le nostre facoltà cognitive. Mentre in alcune patologie mentali sarebbe efficace recuperare questa capacità.

“Scusi, vado bene di qua per… Può indicarmi la direzione?”. Chi è nato quando ancora non esistevano dispositivi tecnologici in grado di guidarci su un terreno sconosciuto conosce bene la difficoltà di orientarsi consultando una mappa, o di trovare qualcuno da cui ottenere informazioni attendibili.

Oggi app e navigatori ci impediscono di perderci. Ma ricordiamo che un minimo di senso dell’orientamento potrebbe essere utile solo se ci troviamo “senza campo” o dobbiamo muoverci in uno spazio interno complesso, come i corridoi di un ospedale.
Orientarsi nello spazio è importante. Forse non ne va della nostra sopravvivenza, come per i nostri antenati che si procuravano il cibo spostandosi in ambienti sconosciuti e ostili. Ma una parte della nostra identità è certamente legata al sapere dove siamo e dove vogliamo andare. Tanto che il disorientamento nello spazio è uno dei primi sintomi della demenza.

Lo ricorda il recentissimo Il cervello trova la strada (Corbaccio, pp. 256) di Michael Bond, scrittore e giornalista scientifico, Una rassegna degli studi più importanti sul senso dell’orientamento e la memoria.

Il saggio ci ricorda l’importanza di “trovare la strada”, in senso letterale e metaforico. Descrive i diversi tipi di neuroni, molti dei quali nell’area del cervello definita ippocampo, che permettono di orientarsi nello spazio, e anche di tenere presenti in contemporanea punti di riferimento diversi. In sostanza, di sapere dove si trova il bagno di casa, ma anche dove abbiamo parcheggiato la macchina.

 

Per costruire le mappe mentali

La memoria spaziale è un sistema complesso, basato su spazio e tempo, che contiene informazioni di tipo verbale che si agganciano ai ricordi e ad altri elementi cognitivi. Uno dei sistemi di memorizzazione più utilizzati si basa proprio sulla costruzione di vere e proprie mappe mentali, in cui collocare le informazioni che vogliamo ricordare.
Eppure, solo di recente la psicologia ha cominciato a occuparsi del nostro rapporto con gli spazi in cui ci muoviamo. La stanza, la strada, gli ambienti familiari e non. Spazi che hanno una loro oggettività, anche se ce ne formiamo una rappresentazione solo attraverso le nostre interazioni con loro.

Un processo che mette in gioco precise aree cerebrali, ma anche una componente esperienziali.
Chi per lavoro si occupa di spazi – come ingegneri o architetti – ha anche maggiori capacità di rappresentarli.
Ed è la capacità di orientarsi che ha fatto degli uomini quello che sono ora.

Gli antichi toponimi, a partire da quelli della sua Scozia, sono spesso legati alla necessità di fornire ai viaggiatori un sistema di riferimento geografico. Oggi le città in cui viviamo ci pongono problemi diversi.
A New York,l’attentato alle Twin Towers ha anche privato i cittadini di un importante punto di riferimento. Mentre lo Shard, l’edificio più alto di Londra, non è particolarmenteutile allo scopo perché si trova al centro della città, e appare molto simile da qualunque parte si guardi.Tenendo conto che la capitale inglese, nata senza un preciso piano regolatore da un insieme di villaggi, è nota per essere una delle città più difficili in cui orientarsi.

 

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Piccoli esploratori

A esplorare il mondo cominciamo da bambini, anche se nei primi anni di vita ci aggiriamo seguendo le nostre curiosità, apparentemente senza meta. Un modo di procedere che a noi può apparire come vagabondaggio che però, è comunque importante per il nostro sviluppo cognitivo. Per questo è un peccato che oggi i bambini abbiano sempre meno possibilità di esplorare il mondo: vero che l’ambiente urbano può sembrare ostile ma nella realtà i rischi di
aggressioni o da parte di estranei sono piuttosto rari.

E sappiamo che esercitare le nostre capacità di orientamento ha effetti sul nostro cervello. Le ricerche sui tassisti londinesi mostrano che conoscere a memoria le mappe di una città aumenta il volume dell’ippocampo, l’area cerebrale più direttamente coinvolta in queste funzioni.
Per ottenere risultati però serve un addestramento sul campo, le esperienze virtuali come quelle sui videogiochi non bastano. Tra le cellule responsabili del nostro senso dell’orientamento ci sono le headdirection cell.  La loro attivazione è collegata al movimento della testa, quindi alla nostra attività in uno spazio fisico reale, che permette al cervello di creare più facilmente delle mappe spaziali.

Tra le modalità di allenamento più efficaci c’è anche l’orienteering, una disciplina sportiva che combina velocità e capacità di muoversi sul territorio seguendo una mappa. Uno studio su praticanti di questa disciplina mostra che orientisti esperti riescono a rappresentare la mappa di una città in modo più efficace e flessibile rispetto a persone non esperte di orienteering. E sappiamo che l’abilità di muoversi nello spazio ha anche ricadute su altri tipi di prestazioni, per esempio nelle risposte a prove che richiedono di identificare immagini di oggetti uguali ruotati nello spazio.

 

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Orientarsi senza dipendere solo dalla tecnologia

In attesa di conferme definitive, c’è comunque un segnale preciso: affidarsi in toto a strumenti che studiano il percorso per noi non va bene.
Non c’è dubbio che sostituire un’abilità cognitiva con la tecnologia abbia delle conseguenze sul cervello.  Il che non significa che dovremmo rinunciare a usarli.
Un supporto tecnologico può essere molto funzionale in ambienti complessi, per esempio in situazioni in cui è stata modificata la viabilità, però
dovremmo evitare di farne un’abitudine risparmiando anche il minimo sforzo per cavarcela da soli.

Dagli studi sull’orienteering arriva anche un’altra informazione importante, che sfata i vecchi pregiudizi sullo scarso senso dell’orientamento femminile.

Oggi sappiamo che le donne sono capaci come e più degli uomini di orientarsi in modo efficace usando strategie diverse. Le donne tendono a usare un approccio egocentrico, soggettivo, gli uomini invece un approccio allocentrico basato su riferimenti spaziali presenti nell’ambiente.

Ma non esiste una differenza quantitativa, salvo che per le donne che vivono in società con forti disparità di genere che le costringono a non uscire di casa e quindi a non esercitare la memoria spaziale.  A determinare il risultato contribuisce però anche la percezione di auto efficienza. Può succedere che le ragazze siano convinte di non poter affrontare questo tipo di compiti o magari si trovino bene delegandoli ad altri: in molti casi, sentirsi in grado di affrontare il
compito è sufficiente per avere un buon risultato.

 

 

Paura di dis-orientarsi

Resta il fatto che la paura di perderci è radicata nella nostra mente, e può creare un’angoscia profonda anche in situazioni in cui non ci sono pericoli.
È come la sensazione di precipitare nel vuoto. La capacità di orientarci nell’ambiente ha a che vedere col nostro senso d’identità, la nostra percezione di essere al mondo.

La cosa più angosciante è la sensazione di perdere l’orientamento, andare verso sud quando si pensava di andare a nord o viceversa. E il senso di smarrimento può essere anche il primo segnale di una malattia neurodegenerativa, che colpisce in particolare le terminazioni nervose legate alla percezione dello spazio.

I pazienti con demenza corrono facilmente il rischio di perdersi, e tendono a vagabondare, un comportamento che è visto come un sintomo della malattia anche se,  potrebbe essere invece un modo per reagire e cercare in qualche modo di orientarsi. Tanto che sempre più spesso nascono progetti finalizzati a creare ambienti sicuri in cui i pazienti con demenza possano muoversi in sicurezza.

SI sta sperimentando la possibilità di potenziare le capacità residue di orientamento in pazienti con danno cognitivo lieve, utilizzando strategie come la tecnica dei loci o il diario, ossia traducendo l’informazione visiva in narrazione, permettendo loro di contrastare l’emergere della patologia. Il problema riguarda chi soffre di forme patologiche.  In generale, negli anziani sani, il senso dell’orientamento è piuttosto stabile; anzi, in alcuni casi, con l’età la percezione di sapersi muovere nell’ambiente diventa più forte.

In ogni caso, orientarci nello spazio fa parte di noi, ma anche spostarsi senza meta, lasciandosi guidare dalla strada, è molto interessante, anche se non abbiamo spesso occasione di farlo, e potrebbe essere un‘occasione per un allenamento diverso.
E poi, ricorda Bond, ogni tanto dovremmo anche permetterci di perderci: “Non perdersi mai significa non vivere”.

 

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Un’attitudine legata al tipo di personalità
Gli estroversi riescono a orientarsi meglio

Esiste un rapporto tra personalità e senso dell’orientamento?
Sembra di sì, e in qualche modo è intuibile che serenità e fiducia in se stessi aiutino a esplorare l’ambiente. Uno studio su oltre diecimila soggetti realizzato presso l’università della California a Santa Barbara mostra che chi ha uno spiccato senso dell’orientamento ha anche un punteggio elevato nei tratti di estroversione,coscienziosità e apertura mentale, e punteggi bassi nel nevroticismo.

“Non è così strano”, osserva Bond, “se siete dinamici, autodisciplinati, avventurosi e avete fiducia in voi stessi, è meno probabile che vi perdiate”. Senza contare che l’estroversione è una caratteristica che ci porta a muoverci di più, “a fare esperienza dell’ambiente, per esempio per raggiungere luoghi di socializzazione”.

Molto dipende anche da come percepiamo la nostra capacità di muoverci nello spazio. Spesso chi è convinto di avere un buon senso dell’orientamento si muove effettivamente meglio. . L’ansia, la sensazione di non essere in grado di muoversi nello spazio, ha invece l’effetto contrario: l’aspetto estremo di un comportamento di questo tipo è l’agorafobia.

 

 

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Regole d’oro per imparare a orientarsi 
Studiate con i bambini le vecchie cartine

  • Cogliamo ogni occasione possibile per passeggiare in zone che non ci sono familiari, cambiamo strada per tornare a casa, facciamo gite seguendo i sentieri e imparando a identificare punti di riferimento.
  • Quando possibile rispolveriamo le vecchie cartine o meglio ancora proviamo a orientarci da soli, riservando il navigatore per le situazioni di emergenza.
  • Diamo un obiettivo alle nostre camminate, come una caccia al tesoro o anche una passeggiata alla ricerca di funghi o frutti di bosco.
  • In tutte le occasioni in cui è possibile farlo in sicurezza permettiamo ai bambini di muoversi da soli, anche allontanandosi. E incoraggiamo tutte le attività all’aperto in cui si allena il senso dell’orientamento, come lo scoutismo o l’orienteering.
  • Prima di intraprendere un viaggio in macchina studiamo l’itinerario con i bambini, individuando sulla cartina, e magari con l’aiuto di qualche foto, le tappe più significative – un fiume, una montagna, un monumento – per poi ritrovarle lungo il percorso.
  • Specialmente per le persone anziane o che hanno qualche problema di memoria, può essere utile e piacevole documentare il percorso di una passeggiata con delle foto per avere un’altra chiave di lettura e facilitare la memorizzazione.

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